reading time 8‘ | text&graphic by Nam Jun Kim | illustrations by Stefano Summo
Era il 19 giugno del 2002, un estate particolarmente vivace. Ai tempi abitavo a Cologno Monzese piccolo comune non lontano da Milano. Avevo circa 7 o 8 anni, la scuola era finita e come tutti i bambini all’epoca anche i miei genitori mi mandarono al centro estivo locale per trascorrere piacevolmente i mesi più caldi, quelli in cui non dovevo andare a scuola e potevo dedicarmi ad attività ricreative di vario tipo con gli amici. Ma il 19 giugno era anche il giorno in cui l’Italia di Trapattoni avrebbe affrontato la Corea del Sud di Hiddink agli ottavi di finale dei Mondiali Corea-Giappone. Ricordo come se fosse ieri in cui, a 10 minuti dal calcio d’inizio (la partita in Italia cominciava alle ore 12:30), la maestra mi prese per mano e mi piazzò nel mucchietto di bambini davanti alla televisione pronti a fare il tifo. Non l’avesse mai fatto maledetta.

La partita inizia e ovviamente in tv si vedono solo tifosi coreani talmente esaltati, vestiti e truccati di rosso che sembravano un branco di pazzi assatanati in pieno rito sacro a qualche dio del calcio coreano. Dunque io ero lì, unico bambino abbastanza coreano da tifare per la mia nazionale di origine ma obbligatoriamente italiano da dover tifare gli Azzurri anche per evitare, probabilmente, l’esercito dei coetanei italiani eventualmente pronti a soggiogarmi facendomi rimpiangere di essere nato nella penisola italica. Guardavo in silenzio, tifavo in silenzio, urlavo in silenzio. Forse è stato il momento in cui più mi sono sentito solo. Ma probabilmente non è nulla in confronto alla storia che ho scoperto solo in tempi più maturi dell’assoluto protagonista di quel Mondiale. Che siate lettori coreani o italiani sappiamo tutti alla fine come è andata a finire. Ci tengo a dire che non voglio discutere sulla correttezza o meno di quella partita arbitrata da Moreno. Ma tra le tante storie del calcio, controversie, Maradona, il rosso a Totti, di certo quel che è successo al nostro Ahn Jung-Hwan (oltre a cosa abbia rappresentato per i coreani) è di particolare interesse.

Ahn Jung-hwan è nato a Paju città della provincia Gyeonggi il 27 gennaio del 1976 in Corea del Sud. Ahn è stato un giocatore modestamente brillante agli inizi della carriera. Era un attaccante che ricopriva il ruolo di prima o seconda punta discretamente tecnico e forte atleticamente. In Corea, anzi in tutto l’oriente, ha mostrato un alto livello di gioco a cui la cultura calcistica (giovane) asiatica non si era mai aspettata e in patria era famoso anche per il suo bell’aspetto. Oggi non si potrebbe dire che Ahn abbia avuto una carriera ad alti livelli. Infatti, la vita di Ahn ce lo ricordiamo non tanto per le poche cose meravigliose, ma forse più per i giorni tristi e solitari nascosti dietro al suo bell’aspetto da fanciullo. Ahn è cresciuto in un ambiente difficile. Non conosceva nemmeno suo padre. Non aveva un posto dove vivere tanto da doversi spostare più di 10 volte ogni 6 mesi. A stento riusciva a mangiare e aveva solo un abito che indossava tutti i giorni per andare a scuola. "Hai solo questi vestiti?" gli amici lo prendevano in giro e Ahn rispondeva: "Ho cinque vestiti identici." Ahn, sempre affamato, sognava di diventare il proprietario di un supermercato, perchè avrebbe potuto mangiare tutto quello che voleva. Per questo motivo non possiamo negare quanto abbia ispirato i coreani per il duro lavoro in un ambiente ostile, per raggiungere quel momento, forse l’apice di una carriera tutto sommato poco entusiasmante: il traguardo drammatico dei Mondiali del 2002.


Ma facciamo un passo indietro: Ahn 2 anni prima arrivò a Perugia, nell’estate del 2000 in prestito dal Busan lPark, squadra della K League (il massimo campionato sudcoreano). Per molti il suo ingaggio è l’ennesima stravaganza dell’allora presidente Luciano Gaucci, uno non nuovo ad operazioni di mercato poco convenzionali. Nel 1998 ad esempio, il presidente aveva già portato in Umbria il famoso giapponese Hidetoshi Nakata e la scommessa si era presto rivelata vincente. Un motivo in più per continuare ad esplorare le sconosciute frontiere del calcio orientale. Infatti anche per Ahn l’obbiettivo di Gaucci era quello di trasformarlo in un giocatore che facesse immagine, portare sponsor e che poi si rivendi facendo plusvalenze economiche importanti. L’arrivo del sudcoreano a Perugia è carico di aspettative ma la realtà, purtroppo, è andata diversamente. Nel calcio sono tanti i motivi che portano un calciatore a lasciare una squadra: la voglia di provare un’esperienza in un Paese diverso, la ricerca di nuovi stimoli, la convenienza economica o molto semplicemente perché gli allenatori decidono di puntare su alcuni calciatori e non su altri. E allora si parte. Altra squadra. Altra città. Nuova avventura. Ma così non è stato per Ahn, che dopo nemmeno 2 anni ha dovuto rifare le valige, probabilmente per “colpa” della gioia sportiva più grande della sua carriera.
L'allenatore del Perugia Serse Cosmi, poi, non si fidò più di tanto del coreano e delle sue presunte doti. Per non parlare dei compagni con cui non ha mai trovato una vera intesa, in particolare con un giovane talento del calcio italiano: Marco Materazzi. Quest’ultimo si dice che si divertisse a prendere in giro Ahn. Infatti il primo anno per il giocatore coreano, maglia numero 8 sulle spalle, vede il campo solo 15 volte mettendo a segno 4 gol. L’anno dopo la società gli dà la prestigiosa maglia numero 10, ma la musica cambia poco: 15 presenze e 1 gol. Come sappiamo in quel periodo la Serie A godeva di uno status importantissimo a livello internazionale e militavano alcuni dei calciatori più forti e famosi al mondo: Maldini, Zidane, Shevchenko, Edgar Davids, Vieri, Del Piero, Trezeguet, Totti, per citarne alcuni. È un peccato che anche Ahn non abbia potuto brillare anche solo per un momento tra questi grandi giocatori anche se giocava in un club storicamente provinciale e non di prima fascia.

Tornando in quell’estate di 18 anni fa, Ahn ha dovuto in fretta e in furia lasciare Perugia. Il motivo? Proprio per aver segnato il golden gol che ha eliminato l’Italia dai Mondiali del 2002. Ricordo ancora l’assordante reazione del “nooo” di delusione dei miei amichetti, degli insegnanti e persino del bidello al centro estivo. Al 90’ il risultato è ancora sull’1-1 grazie ai gol di Vieri e, quasi allo scadere, di Seol Ki-Hyeon. Si va ai supplementari. Ed è qui che viene fuori Ahn. È il 118’ e, tra fischi di Moreno per dubbiosi falli, Ahn di testa su un cross dalla sinistra beffa Gigi Buffon e regala alla squadra i quarti di finale: mai la nazionale coreana era arrivata così in alto. Ma di certo per il vulcanico ed imprevedibile patron perugino Gaucci, non era solo una delusione di una partita persa, tutto ciò era abbastanza per licenziare Ahn in tronco e con parole di fuoco disse: «Basta! Quello non rimetterà mai più piede a Perugia! Quel signore non deve più accostarsi alla nostra squadra. Ho già dato disposizione che venga azzerata ogni possibilità di riscatto». Uno scherzo? Certo che no. A riportare l’intervista è la Gazzetta dello Sport nell’edizione del 19 giugno di quell’anno, ma la notizia era anche su tutti gli altri quotidiani, sportivi e non. Dalla gloria con la propria nazionale al licenziamento. Tu elimini la mia squadra dai Mondiali? Io ti mando via. La vendetta era servita.




Luciano Gaucci / Getty Images

Ricordo che dall’altra parte del globo il passaggio del turno dei padroni di casa scatena in Corea una vera e propria festa popolare. Un intero Paese si tinge di rosso. Tutti pazzi per Hiddink e, ovviamente, per Ahn che da quel momento in poi è considerato un eroe nazionale. Una sorta di Paolo Rossi coreano per farvi capire. L’eliminazione dell’Italia per mano di Ahn fa diventare Gaucci un fiume in piena. Il patron, come suo solito, non usa parole di circostanza e licenzia il giocatore a mezzo stampa: «Sono indignato! Lui si è messo a fare il fenomeno soltanto quando si è trattato di giocare contro l'Italia. Io sono nazionalista e questo comportamento lo considero non soltanto una comprensibile ferita al mio orgoglio di italiano, ma anche un'offesa ad un Paese che due anni fa gli aveva spalancato le porte». Gaucci deluso e offeso addirittura in un’altra intervista disse: «Quando è arrivato per la prima volta in Italia, era come una "capra smarrita" che non aveva neanche i soldi per comprare un panino. Mi pento, noi lo abbiamo fatto crescere nel nostro calcio e alla fine ci siamo rovinati con le nostre stesse mani. Da noi si è sempre comportato da modesto comprimario e poi torna a casa e si mette a fare l'extraterrestre, si è comportato in modo ostile. Io non intendo più pagare lo stipendio a uno che è stato la rovina del calcio italiano».

A queste pesanti affermazioni Ahn non potè che rispondere così: «Le parole di Gaucci mi hanno fatto troppo male» rivela a La Gazzetta dello Sport prima della partita contro la Turchia «mi ha offeso dicendo, tra le altre cose, che prima di venire da loro non avevo i soldi nemmeno per comprare il pane. Ringrazio l'Italia, a cui sono affezionato, per come mi ha accolto, sono orgoglioso di essere stato un giocatore della serie A, ma non voglio più giocare nel Perugia».




La Gazzetta dello Sport, archivio Mercoledì 19 giugno 2002

A dar manforte a Gaucci, arriva anche Cosmi, mai pienamente convinto delle qualità dell’attaccante ma sicuramente più gentile: «Chiederò di non riscattarlo. Fisicamente Ahn ha doti senza dubbio eccezionali. E anche dal punto di vista tecnico ha capito parecchie cose: quando è arrivato era convinto che il calcio si giocasse soltanto nei quaranta metri davanti alla porta avversaria. Poi ha assimilato concetti più moderni ed europei. Io penso che abbia i numeri per fare una buona carriera». Detto, fatto. Ahn lascia Perugia e va in Giappone, al Shimizu S-Pulse.
Alessandro, figlio di Luciano ammise in seguito che tutta la faccenda fu solo un grande fraintendimento e si scusò con il popolo coreano. Pare che i problemi furono più che altre tra le due proprietà (Perugia e il Busan IPark) e l’agente stesso di Ahn. Fatto sta che fu un addio senza alcun rimpianto. Ma rumoroso e rocambolesco.


Noi coreani abbiamo visto forse solo il lato splendido ed eroico di Ahn Jung-hwan, e gli italiani solo come “lo straniero che non ha avuto rispetto per chi lo ha ospitato” insomma, visto come una persona che si dedica al calcio in un ambiente che diventava sempre più benestante e superficiale, in cui man mano si andavano a scemare certi valori. Quello che ci tengo a dire, al di là della partita controversa, è che nonostante tutto Ahn per primo ha indossato le scarpe da calcio quando gli è stato detto che non poteva giocare per essere cresciuto in difficoltà, nelle mani della nonna materna che lo ha nutrito solo di pane e latte. In un intervista disse: «Quando ero giovane, risentivo delle circostanze difficili e mi chiedevo perché fossi nato così. Ho sempre pensato che sarei voluto nascere in un ambiente migliore [...]. Ma se lo fossi stato, probabilmente avrei smesso di fare quello che ho fatto perché ero a mio agio nella comodità. Penso di essere riuscito ad ottenere quello ho come calciatore partendo dal basso e con il veleno nelle sangue. La povertà presenta degli svantaggi certo, ma penso che ci siano anche dei vantaggi».

Ahn per i coreani è diventato un grande giocatore e forse non si meritava di essere radiato dall’Italia con insulti pseudo-razzisti. Certo non era un fenomeno né tecnicamente né tatticamente o per chissà quale carisma, ma è stato indispensabile per la storia del calcio coreano, per i coreani. Un popolo che solo da pochi decenni cercava di crescere per diventare uno dei paesi leader mondiali dopo i brutti periodi di sofferenza dell’occupazione Giapponese e della guerra civile del secolo scorso.
C'è stato un tempo in cui Ahn Jung-hwan versava segretamente sudore e lacrime ogni mattina pur non avendo il tipico talento di un brasiliano, l’intelligenza di un tedesco o la figaggine di un inglese. Ma è grazie al suo sudore che cominciò una nuova Era del calcio coreano e con essa l’intera cultura di una Nazione. Per i coreani, per noi, Ahn sarà sempre il nostro Fantasista (che agli italiani piaccio o no).